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Viviamo
in mondo dominato dal mito autoreferenziale del progresso, che viene divulgato
come se fosse un fenomeno a senso unico, perennemente in crescita , di cui l’umanità
è spettatrice, più che protagonista. Sono così forti le influenze di questa
propaganda operata dai “poteri” della finanza, dell’industria, della scienza,
dei media e del marketing che è quasi impossibile spiegare che questo concetto
è falso o, quantomeno, tutto da dimostrare.
La crisi della civiltà occidentale sta incrinando l’infallibilità
di detto progresso. Servono concetti alternativi dei quali servirsi per
imprimere alla società – di cui l’economia è solo una delle dinamiche – una spinta
rigeneratrice.
Insieme
ad altri , tra questi concetti, ci sono quelli di “rinnovamento” e di “innovazione”.
L’aspetto determinante è che essi possono diventare obiettivi che intervengono
nella sfera personale - si alimentano
anche di una responsabilità individuale - e che sono in grado - se ben
orientati e condivisi da una “massa critica” di soggetti attivi - di assumere
dignità di “progresso” quando diventano patrimonio di una fenomenologia
collettiva.
L’aspetto più intrigante dell’innovazione si ricollega all’evidenza
che la realtà è una costruzione mentale e la interpretazione di ciò che è "reale" può giungere a risultati profondamente innovativi anche semplicemente
cambiando il punto di vista.
Al secondo anno di studi universitari cambiai casa ed
occupai una stanza di un appartamento al centro di Bologna. Era un appartamento
enorme (era stato un bordello fino all’avvento della legge che li vietava) ed
una stanza era ancora in uso del proprietario, che ci conservava vecchi mobili.
Era il 1975.
Percorrendo la mia esistenza su due ruote, venivo da una
parentesi motociclistica totalizzante, durata tutto il periodo delle superiori.
Con la moto avevo ampliato i miei orizzonti, avevo raggiunto mete “lontane”, ma
la cosa che avevo fatto in particolare era stato liberarmi dalle strade asfaltate,
buttandomi su qualunque percorso fuoristrada che avevo incontrato. L’ostacolo,
il salto, la derapata, insieme ai paesaggi che scoprivo dopo lunghe
cavalcate in montagna mi attraevano come il canto delle sirene.
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Un giorno, soffermandomi davanti all’officina di un ciclista,
vidi quella che sarebbe stata la prima bici della mia maturità. Giaceva quasi
sommersa sotto una catasta di ruote e di telai e di altra cianfrusaglia, ma la
sua conformazione le impediva di scomparire.
Tradotto dal bolognese , il vecchio ciclista dalla faccia
paonazza di vino mi disse “Era la bici del garzone del panificio qui all’angolo.
Me l’hanno lasciata ma non verranno più a prenderla perché ormai consegnano con
un furgoncino. Se la vuoi prendere, te la regalo”.
Non gli detti il tempo di ripensarci e, dopo averlo aiutato
a liberarla , uscii con la bici pagata al prezzo di due camere d’aria, due copertoni
nuovi ed un unico sorso di vino tracannato insieme a lui da un bicchiere sporco di grasso.
Una abitudine che avevo e che non ho mai perso era quella di
avere con me una cassetta degli attrezzi per cui, portata la bici nella stanza-magazzino
del mio appartamento al primo piano, la sera stessa iniziai a studiarla e
smontarla per dare senso alla mia intuizione. I due larghi portapacchi , i parafanghi
, il paracatena non potevano rimanere al loro posto e sotto questa cortina di
ferro si svelò tutto ciò che mi interessava. Lo scheletro lungo e basso , il largo manubrio
con i freni a bacchetta, le grosse ruote esprimevano la robustezza della bici
che avevo in mente: una bici da fuoristrada!
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Mi ci vollero due settimane per personalizzarla. Uno
spruzzatore per irrorare di insetticida le piante (il famoso “flit”) si prestò
a stendere il velo di vernice rosso-Ferrari con cui sostituire il precedente
colore paramilitare. Cambiai la sella con una Brooks da passeggio. Le ruote da
24” calzate dai grossi pneumatici
bicolore e l’essenzialità della meccanica a rapporto fisso annunciavano un uso
irrituale… lo stesso al quale gli abitanti del centro che mi vedevano
sfrecciare sul pavè dissestato - o anche sotto i portici quando pioveva - e saltare i
gradini "fuorisella" si abituarono presto.
Fu nella prima metà degli anni ottanta che l’ondata delle
mountain bike raggiunse l’Europa. Erano passati circa dieci anni da quando una
manica di scavezzacollo Californiani le aveva
testate lungo la famosa discesa in fuoristrada del Repack, nella Marin County , per poi offrire all’umanità un nuovo modo di pensare la bicicletta.
The poster is an example of the underground advertising for Repack races.Poster art by Pete Barrett |
Cosa sarebbe accaduto alla mia esistenza ed al gruppo di
scalmanati americani se mi fossi iscritto all’Università di San Francisco ed
avessi fatto la mia scoperta più o meno insieme a loro?
Il
fatto è che io – nella tradizione Italiana più recente - mi sono limitato a
realizzare l’innovazione, loro sono stati artefici del progresso. Comunque, tutti
noi abbiamo reinterpretato la realtà con gli occhi del nostro tempo e della
nostra capacità di interagire con l’ ambiente vitale.
Da
allora questa innovazione ha reinventato non solo il mezzo di trasporto, ma la
stessa dimensione del sentirsi liberati dal vincolo della strada per spaziare e
sentirsi “spaziati”, fino a diventare uno sport olimpico ed uno stile di vita.
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