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La realtà è apparenza.
Ammettendo che esistano un tempo ed uno spazio assoluti (anche
se sembra vero il contrario) solo ciò che ciascuno di noi interpreta, dandosi
una ragione di ciò che accade e creando la personale versione dei fatti – o addirittura,
creando la stessa esistenza dei fatti - finisce per chiamarsi realtà, la nostra realtà soggettiva.
È come guardare il mondo attraverso un filtro semipermeabile.
Una finestra speciale che filtra colori, suoni, odori, preconcetti, emozioni,
ricordi, illusioni, credenze, progetti; oppure, che fa emergere - istante per
istante - una possibile configurazione dell’io cosciente che interagisce
con la realtà e , assegnandole l'appellativo di "vera", la sceglie tra gli infiniti mondi possibili.
Possedevo la mia prima bici personale dall’estate precedente,
quando l’avevo conquistata con la promozione in III media. Era un modello
sportivo, con uno stretto manubrio orizzontale, manopole a barilotto, ruote da
28” e dotato di un cambio posteriore a tre rapporti. Una finezza per quei tempi.
Dopo pochi giorni dall’acquisto avevo già smontato i
parafanghi e le luci: inutili orpelli per un mezzo votato alla velocità pura.
Il fatto è che l’inverno avanzava e passavo ore ed ore a
studiare il mio destriero per capire come trasformarlo in una vera fuoriserie. L’idea
balenò una mattina di gennaio – era sabato – quando, al risveglio, trovai che un’abbondante
nevicata aveva coperto le strade e le poche macchine in circolazione avevano le
catene montate.
Non avevo mai visto una bici sulla neve… perché non ci sono
le catene adatte – pensai sgranando gli occhi – Bisognava trovare una soluzione
adatta allo scopo. In breve ero in garage e mi misi al lavoro, ragionando per
imitazione.
Le catene per auto si avvolgono al pneumatico per conferire mordente
, ma la corda che rigiravo tra le mani mentre scandagliavo il mio piccolo
mondo, da sola, non funzionava. Finalmente l’occhio cadde su una scatoletta di
dadi per bulloni da 5 mm che avevo barattato l’estate prima per un orologio
(finto) subacqueo: il mordente si concretizzò nel modello che andavo prefigurando.
Serviva uno spago di lunghezza adeguata e lo trovai nel
cassetto della cucina dove mia madre riponeva il gomitolo che usava per fare
gli involtini. Ci volle più di un’ora per predisporre due collane lunghe oltre
due metri l’una: un doppio filo doveva coprire lo sviluppo della circonferenza di
ciascuna ruota , fissando una sessantina di dadi a distanza regolare. Ora avevo
la catena!
Per fissarla alla ruota , pensai, ci vuole un grosso ago con
il quale guidare lo spago che trasversalmente infila i dadi e li rende solidali
al copertoncino. Recuperai di corsa l’ago che avevo visto nella macchina da
cucire, sgonfiai le camere d’aria e, lavorando ininterrottamente, conclusi l’operazione
prima di pranzo. Nel primo pomeriggio rigonfiai le gomme all’inverosimile e la “catena”
aderì al pneumatico come se ne facesse parte.
Un lavoro da professionisti – gongolai – ammirando il
risultato.
Stava per fare buio quando - di fretta – rimontai le ruote ,
mi accertai che giravano liberamente e corsi per strada. Vidi con malcelata
soddisfazione che c’erano ancora i miei amici a giocare con la neve. Salii sulla
bici appoggiandomi ad un palo. Sentii la catena penetrare lo strato di neve e
agganciare la presa. Alla prima pedalata felpata ne seguì una più potente ed
una più potente ancora, fino a che, in piedi sui pedali e sul viso stampata un’espressione
aerodinamica , approcciai i miei compagni allibiti, a velocità crescente.
Fu quando vidi arrivare una palla di neve lanciata da
qualche impertinente invidioso che, istintivamente, tirai la leva del freno
anteriore.
Fu un istante, ma per me durò un tempo infinito. Lo spago
che avevo avvolto intorno al cerchio agganciò le tacchette del freno e la ruota
si bloccò all’istante, mentre io volavo per poi sprofondare ai piedi dei miei amici, come una foca che
scivola dalla banchisa polare direttamente nelle fauci di un’orca famelica.
La presenza nell’atto di creare era stata inglobata dalla
presenza nell’atto di esibire la creazione. La finestra dalla quale avevo guardato
la realtà si era incurvata ed aveva deformato il modello che avevo prefigurato
mentalmente, portandomi a conclusioni sbagliate.
L’impatto con la neve suonò come un gong nelle mani dell’ipnotizzatore
che sveglia il suo bersaglio riportandomi, incredulo , davanti alla platea
irridente dei miei compagni e ad un nuovo stato di coscienza, finalmente capace
di valutare sequenzialmente elementari rapporti di causa ed effetto: la corda
andava avvolta al copertone e non al cerchio, sul quale si stringono le
tacchette dei freni.
Ciò che ebbe maggiore impatto fu che, in quello stesso
momento, raggiunsi una consapevolezza più profonda del fatto che il mondo
poteva essere ben diverso, se osservato da più punti di vista.
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