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Hai mai provato a scandagliare nella tua memoria, alla
ricerca del primo ricordo?
L’infanzia è qualcosa che ci appartiene principalmente per i
racconti che i testimoni più maturi di noi ci hanno tramandato ed è immersa in
quella bambagia dalla quale, come un raggio di sole che si insinua nella
compattezza del manto nuvoloso, emerge fugace e imprecisa, mitica e favolosa.
Non è un caso che i ricordi più vivi sono legati agli eventi
più dolorosi. Una punizione, una delusione cocente, una caduta dall’alto, la
vergogna di un pianto sommesso nel letto bagnato per non aver trattenuto lo
zampillo di quel putto impertinente che rincorrevamo nel sogno.
Chi , come me, ha avuto un’infanzia da definire felice è
portato a dimenticare, a non collegare gli eventi mentre imperscrutabilmente questi
hanno forgiato, colpo dopo colpo, la nostra natura, condizionando l’inconscio a
preferire le scelte che, dall’esterno, appaiono come il nostro carattere, le
nostre attitudini, fino a diventare passioni, lavori, carriere, amori più o
meno durevoli.
È in una delle pieghe della mia memoria infantile – avrò avuto
sei o sette anni - che appare, come fosse creata dal nulla, la mia prima
bicicletta che, come mi accadeva per tante altre proprietà personali, era
appartenuta ad un fratello più grande. Per la verità questa era stata dismessa
da mia sorella e , ancor più della bicicletta, ricordo la giustificazione che
continuavo a ripetermi per farmela piacere e per contrastare le ironie dei
compagni più fortunati: con una bici da donna, quando non tocchi per terra, è
più facile fermarsi.
Non sapevo che questa dissociazione avrebbe dato origine ad
uno degli aspetti normativi più decisivi per la mia vita futura: bisognava
avere sempre pronto un pianoB!
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