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giovedì 4 aprile 2013

La realtà è apparenza.



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La realtà è apparenza.
Ammettendo che esistano un tempo ed uno spazio assoluti (anche se sembra vero il contrario) solo ciò che ciascuno di noi interpreta, dandosi una ragione di ciò che accade e creando la personale versione dei fatti – o addirittura, creando la stessa esistenza dei fatti - finisce per chiamarsi realtà, la nostra realtà soggettiva.
È come guardare il mondo attraverso un filtro semipermeabile. Una finestra speciale che filtra colori, suoni, odori, preconcetti, emozioni, ricordi, illusioni, credenze, progetti; oppure, che fa emergere - istante per istante - una possibile configurazione dell’io cosciente che interagisce con la realtà e , assegnandole l'appellativo di "vera", la sceglie tra gli infiniti mondi possibili.
Possedevo la mia prima bici personale dall’estate precedente, quando l’avevo conquistata con la promozione in III media. Era un modello sportivo, con uno stretto manubrio orizzontale, manopole a barilotto, ruote da 28” e dotato di un cambio posteriore a tre rapporti. Una finezza per quei tempi.
Dopo pochi giorni dall’acquisto avevo già smontato i parafanghi e le luci: inutili orpelli per un mezzo votato alla velocità pura.
Il fatto è che l’inverno avanzava e passavo ore ed ore a studiare il mio destriero per capire come trasformarlo in una vera fuoriserie. L’idea balenò una mattina di gennaio – era sabato – quando, al risveglio, trovai che un’abbondante nevicata aveva coperto le strade e le poche macchine in circolazione avevano le catene montate.
Non avevo mai visto una bici sulla neve… perché non ci sono le catene adatte – pensai sgranando gli occhi – Bisognava trovare una soluzione adatta allo scopo. In breve ero in garage e mi misi al lavoro, ragionando per imitazione.
Le catene per auto si avvolgono al pneumatico per conferire mordente , ma la corda che rigiravo tra le mani mentre scandagliavo il mio piccolo mondo, da sola, non funzionava. Finalmente l’occhio cadde su una scatoletta di dadi per bulloni da 5 mm che avevo barattato l’estate prima per un orologio (finto) subacqueo: il mordente si concretizzò nel modello che andavo prefigurando.
Serviva uno spago di lunghezza adeguata e lo trovai nel cassetto della cucina dove mia madre riponeva il gomitolo che usava per fare gli involtini. Ci volle più di un’ora per predisporre due collane lunghe oltre due metri l’una: un doppio filo doveva coprire lo sviluppo della circonferenza di ciascuna ruota , fissando una sessantina di dadi a distanza regolare. Ora avevo la catena!
Per fissarla alla ruota , pensai, ci vuole un grosso ago con il quale guidare lo spago che trasversalmente infila i dadi e li rende solidali al copertoncino. Recuperai di corsa l’ago che avevo visto nella macchina da cucire, sgonfiai le camere d’aria e, lavorando ininterrottamente, conclusi l’operazione prima di pranzo. Nel primo pomeriggio rigonfiai le gomme all’inverosimile e la “catena” aderì al pneumatico come se ne facesse parte.
Un lavoro da professionisti – gongolai – ammirando il risultato.
Stava per fare buio quando - di fretta – rimontai le ruote , mi accertai che giravano liberamente e corsi per strada. Vidi con malcelata soddisfazione che c’erano ancora i miei amici a giocare con la neve. Salii sulla bici appoggiandomi ad un palo. Sentii la catena penetrare lo strato di neve e agganciare la presa. Alla prima pedalata felpata ne seguì una più potente ed una più potente ancora, fino a che, in piedi sui pedali e sul viso stampata un’espressione aerodinamica , approcciai i miei compagni allibiti, a velocità crescente.
Fu quando vidi arrivare una palla di neve lanciata da qualche impertinente invidioso che, istintivamente, tirai la leva del freno anteriore.
Fu un istante, ma per me durò un tempo infinito. Lo spago che avevo avvolto intorno al cerchio agganciò le tacchette del freno e la ruota si bloccò all’istante, mentre io volavo per poi sprofondare  ai piedi dei miei amici, come una foca che scivola dalla banchisa polare direttamente nelle fauci di un’orca famelica.
La presenza nell’atto di creare era stata inglobata dalla presenza nell’atto di esibire la creazione. La finestra dalla quale avevo guardato la realtà si era incurvata ed aveva deformato il modello che avevo prefigurato mentalmente, portandomi a conclusioni sbagliate.
L’impatto con la neve suonò come un gong nelle mani dell’ipnotizzatore che sveglia il suo bersaglio riportandomi, incredulo , davanti alla platea irridente dei miei compagni e ad un nuovo stato di coscienza, finalmente capace di valutare sequenzialmente elementari rapporti di causa ed effetto: la corda andava avvolta al copertone e non al cerchio, sul quale si stringono le tacchette dei freni.
Ciò che ebbe maggiore impatto fu che, in quello stesso momento, raggiunsi una consapevolezza più profonda del fatto che il mondo poteva essere ben diverso, se osservato da più punti di vista.

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